E’ come se la morte mi avesse atteso, per un appuntamento che non ha condiviso con me. Non potevo arrivare tardi, non potevo arrivare prima. Perché certi appuntamenti non sono davvero nostri.
In lontananza sento gli ultimi spari, che rimbombano tra le sponde di questa valle, quella di Latrun.
Mentre la vita mi sta abbandonando, proprio adesso, che la amo come non mai.
Perché nel campo di concentramento, nel lager, la voglia di vivere l’avevo persa. Restavo vivo, che è diverso dal voler vivere. Quando la guerra è finita, quando abbiamo sentito – nella notte – i nazisti che correvano di qua e di là, per scappare e abbandonare il campo, tentando in maniera patetica di cancellare quello che era accaduto, come fosse possibile, mi son reso conto che ero sopravvissuto.
Ed ho provato una sensazione strana, come di rancore, come se solo in quel momento avessi realizzato che io non ero morto. Ma non ero neanche vivo. Perché una vita, quello che amavo, è finita il giorno che mi han portato via da casa, nel cuore della notte. E non ne vedevo una nuova da iniziare.
Come potrebbe essere altrimenti, dopo che per anni sei andato avanti pensando solo e soltanto al minuto successivo, mai neanche due. Solo uno.
Perché un minuto è quello che serviva loro per cancellare anche il tuo corpo, oltre tutto il resto. Quello lo avevano già cancellato, quando ti prendevano. Diventavi un numero, come quello che ti tatuavano sulla pelle.
La tua vita, in quel momento, era già riscritta. Dalle persone che abitavano la casa che era stata tua per decenni, cancellando le scritte contro gli ebrei che loro stessi, magari, avevano fatto sui muri quando ci vivevi ancora tu.
Cancellata dai tuoi colleghi, che si giravano dall’altra parte, fino a quando la tua scrivania non era occupata da quella di qualcun altro. Cancellata dai tuoi vicini, che più o meno in fretta, continuavano le loro vite che avevi incrociato per giorni e giorni.
Quel che restava era affidato a qualche vecchio amore, per me che non avevo avuto il tempo di farmi una famiglia, visto che quella in cui ero nato è stata portata via con me, sterminata. Quel che restava era affidato a qualche vecchio amico, a qualche oggetto che avevi amato, finito chissà dove, incapace di raccontare di te.
L’alba della liberazione mi aveva accecato. Mi sentivo nudo, non solo perché vestito di stracci e ridotto a un mucchio d’ossa. Mi sentivo come Adamo, solo, in un mondo che non aveva miei simili. Almeno che fossero ancora vivi. E verso di loro provavo un senso di colpa lacerante. Perché non ero meglio di loro, ero solo vivo.
Ma il mio appuntamento con la morte era qui, nella terra promessa, dove finalmente avremo una casa. Una casa per tutti. Una casa dove tornare, perché quando sono uscito dal lager non avevo niente, neanche quella. Neanche un nome.
Per tre anni, come mille altri, abbiamo attraversato confini vecchi e nuovi, campi che non sterminavano più, ma concentravano uguale, promesse, trattative, attese. E poi, nel 1948, l’opportunità di saltare su una nave, tra le tante, dirette in Israele. La casa, finalmente.
Una casa dove seppellire tutto. E costruire di nuovo. Seppellire il passato, il dolore, gli sguardi indifferenti, quelli di odio. E costruire una casa per quelli come me, senza neanche un nome, dove nessuno sarebbe mai più stato solo un numero.
Una casa da conquistare ad ogni costo, anche di una guerra, proprio ora che ne è finita un’altra. “Gli arabi non capiscono, gli arabi erano con i nazisti”, dicevano molti che hanno viaggiato con me, verso questa terra, in fuga dal loro dolore, dal loro numero.
Io non lo so, non avevo le idee chiare, sapevo solo che ero nudo. Mi sentivo ancora come il giorno che i nazisti sono andati via e io guardavo quel cancello aperto, finalmente, ma non sapevo dove andare.
La Palestina, Israele, per me hanno rappresentato una speranza. Solo un posto che non esisteva quando è iniziato l’orrore può avere un senso per iniziare una nuova vita, per rinascere, per essere come battezzato di nuovo. Per avere un nome.
Bisogna combattere per questo. E appena arrivato, ad Haifa, mi han messo in mano un fucile e mi han spedito a combattere. A me è toccata la valle di Latrun, perché questa valle mi aspettava. E’ qui che avevo il mio appuntamento con la morte.
E’ da qui che dovevo passare per morire e per rinascere, per iniziare una nuova vita, anche se sarò morto. Nel campo ho vissuto, come morto. Qui sento la vita che mi abbandona, ma so che servirà ad avere un nome, una storia, un posto nella nuova vita. Anche se non ci sarò.
***
La battaglia di Latrun è uno degli episodi del conflitto tra l’esercito israeliano e (nel caso specifico) truppe giordane durante il conflitto del 1948, scoppiato dopo la proclamazione dello Stato d’Israele. Gli scontri avvennero tra il 25 maggio e il 18 luglio 1948.
La valle di Latrun, che prende il nome da un antico monastero, aveva una rilevanza strategica enorme, essendo al centro del crocevia tra le principali arterie che collegavano Gaza a Ramallah e Tel Aviv/Jaffo a Gerusalemme.
L’esercito israeliano l’avrebbe poi conquistata definitivamente nel 1967, lanciato in un’operazione che per molti soldati aveva anche il sapore della rivincita, dopo che nel 1948 erano stati respinti.
Nel 1948, come è ormai ampiamente documentato, alle truppe dell’esercito israeliano si erano uniti tanti sopravvissuti dai campi di concentramento, che arrivavano in Israele con ogni mezzo, in particolare le navi della speranza chiamate Ma’apilim, non avendo in molti casi un posto dove tornare dopo i lager e la deportazione.
Tra i 4mila morti che si contarono nelle file israeliane nel conflitto del 1948 c’erano molti di loro e, nella maggior parte dei casi, non avevano avuto neanche il tempo di essere registrati e identificati. Ecco che molte vittime son rimaste senza nome.
Un monumento è dedicato loro nel memoriale della Battaglia di Latrun, anche se i governi israeliani del passato e del presente hanno sempre cercato di risalire alle identità, tra le liste degli scomparsi nei lager e con le testimonianze dei commilitoni.
Non è stato sempre possibile, e qualcuno è rimasto senza nome, nella terra da contendere a chi l’abitava da anni, per cercare di nascere un’altra volta.