Intervista con MICHEL WARSHAWSKY

 

Gerusalemme Ovest, esterno giorno.

Certo che tutto questo un giorno finirà. La storia ce lo insegna, non esiste niente di irreversibile. E finirà nel momento in cui qualcuno, in alto, riterrà che il prezzo che stiamo pagando è troppo alto per ciò che stiamo ottenendo in cambio”.

Si è voluto sedere, Mikado, prima di continuare a raccontare. E’ dal mattino che corre, l’aria di chi non riesce a star fermo perché le cose da dire sono troppe. Il caffè di Gerusalemme dove decide di fermare per un istante la nostra comune corsa è un luogo familiare: un sorriso, la solita birra, l’ennesima sigaretta accesa. E’ la settimana della Memoria, suoneranno solo canzoni tristi, oggi”., sospira. La melodia che accompagna il primo momento di quiete di una giornata frenetica è malinconica quasi quanto le sue parole.

La guerra, a volte, è una traccia che resta in sottofondo e scava, facendo affiorare ricordi quando lo decide lei.

E che divide, come un nemico inventato perché necessario.

Per molti anni, anche durante le nostre fasi politiche più delicate, bastava far nascere qualche tensione al ‘confine’ perché ogni discussione interna venisse rimandata. Ma la verità è che l’occupazione ci ha lacerati. Ha creato una separazione profonda tra chi vi si opponeva, e chi pensava che fosse solo la naturale prosecuzione di quanto iniziato nel 1948. Allora ci si era dovuti fermare, nel giugno del 1967 finalmente si poteva andare avanti.Era il sogno di Ben Gurion e Golda Meir che si compiva. Era stato sufficiente portare pazienza”.

Sospira, Mikado, e accende un’altra sigaretta. Lui, che della generazione resistente cui appartiene sembra essere rimasto il solo rappresentante. Lui, che quando pensa agli intellettuali dissidenti del suo paese si apre in un sorriso amaro, e li chiama “i rifugiati interni”.Sono qui, ma è come se non ci fossero. Eppure la storia di questo paese ci ha insegnato che le cose possono cambiare il modo rapidissimo e radicale, purché mosse da una forte spinta interna”.

2017, anno di ricorrenze, anno di riflessioni. Una data sul calendario che segna un tempo che si è fermato, congelando tutto e insieme lasciando che sotto qualcosa continuasse a muoversi, implacabile.

Sharon lo ha sempre ripetuto: ‘Israele non ha confini da difendere’. Ecco perché la questione a distanza di tanto tempo resta aperta. Quella del 1967 per Israele è solo un linea di cessate il fuoco, non una frontiera. E in quanto tale non è definitiva. Concettualmente, è profondamente diverso”.

Quando Israele occupò la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e il Sinai, per la maggior parte degli israeliani si trattò di una misura provvisoria. Era un paese giovane, quello. Neanche 20 anni di vita, dopo molti di più spesi a immaginarlo. “La vittoria di quella guerra per noi fu come un miracolo. Non riuscivamo a crederci, soprattutto alla luce del panico collettivo in cui la popolazione era vissuta nei mesi precedenti”, ricorda Mikado.

La gente, qui, era convinta che sarebbe stata la fine per Israele. Solo l’esercito e i leader politici conoscevano davvero la relazione delle reali forze in campo. Noi, ne eravamo inconsapevoli. E quella vittoria è stata la nostra più grande sconfitta. Dalla grande paura si passò ad una sorta di isteria collettiva: un delirio di onnipotenza che ci aveva colti. Noi, un piccolo paese circondato da Stati forti e ostili, adesso sentivamo di poter fare qualunque cosa”.

Una Ubris, la chiama lui, mentre accende un’altra sigaretta. Forte, senza filtro, come se ne fumavano una volta. Come se anche questo, in fondo, fosse rimasto fermo ad un’epoca passata.

E’ in questa atmosfera post-67 che si è sviluppato qualcosa di già esistente, ma sino ad allora marginale, quasi celato. La filosofia dominante, messianica e ultra-nazionalista che ci avrebbe dominati per gli anni a venire.  Fu l’inizio dell’era del Messia. Ora stiamo realizzando l’ultima tappa: ricostruire il Tempio e riprendere tutto ciò che ci apparteneva prima”.

E’ con amarezza che fa i conti con un presente ostile, Mikado. Perché se prima del 1967 chi la pensava così era una minoranza, oggi è al potere. “Gradualmente ma inesorabilmente, l’idea di dover negoziare, di dover restituire ciò che era stato occupato, è svanita. Oggi l’occupazione è del tutto normale: la percezione collettiva è quel territorio ci spetti. Che non ci sia proprio nulla da dare indietro”.

Per questo, Mikado è convinto che l’occupazione militare non abbia unito il popolo israeliano intorno ad un nemico comune. Ma che piuttosto “ci abbia divisi profondamente. Noi, la cosiddetta ‘sinistra radicale’, abbiamo perso. Ed è accaduto perché non siamo stati capaci di offrire un discorso alternativo, scegliendo invece di inserirci in quello esistente; di misurarci sullo stesso patriottismo nazionalista, giocando sullo stesso insieme di valori invece che proponendone altri.  Perché mai avremmo dovuto scendere a compromessi, se eravamo i più forti?”.

E con il passare del tempo anche quella Linea non è stata più la stessa.  Ha cambiato volto, è divenuta confine. “Ma non politico o geografico. Molto peggio: per la gente, quello del 1967 è un confine etnico. Gli ebrei da una parte, dall’altra gli arabi”.

Qualcosa che, a suo avviso, era chiaro sin dagli albori del movimento sionista. “Non bisogna dimenticare che l’obiettivo ultimo del Sionismo non era la costruzione di uno Stato in Palestina. Questa è solo una parte della storia. L’altra, è quella che voleva quello Stato demograficamente puro: ebraico. I due cardini della strategia sionista sono sempre stati – e restano tuttora – l’assenza di confini e la provvisorietà delle pratiche. Non stabilire qui ed ora l’obiettivo, ma avanzare quanto più possibile prima di essere fermati. Così che, quando accadrà, avremo il mano il massimo che si poteva ottenere. Ad oggi nessuno ci ha fermati, nessuno ci ha costretti al compromesso”.

La birra è finita, e anche l’ultima sigaretta. A breve, su Gerusalemme calerà il tramonto. Dalle melodie tristi di questo caffè dell’Ovest passeremo ai richiami del muezzin alla preghiera. Ci salutiamo: la corsa, per oggi, è finita. “Seguite la strada, la città vecchia ve la troverete davanti. Basta andare sempre in discesa, verso Est”.