A volte la guerra è un racconto, che passa di bocca in bocca, di ricordo in ricordo.
Alle 7.45 del mattino, il 5 giugno del 1967, Hassan il Giovane non è ancora nato. Quella data però la ricorda bene, come tutti.
Battir è uno di quei villaggi in cui la Linea diventa fisica, pesante. L’unico attraversato da una ferrovia, che insieme a quell’aria un po’ romantica gli restituisce orizzonte. Un orizzonte di senso, perché intorno a quei binari si è scritto il destino del villaggio. Un orizzonte di possibilità, perché culla nell’illusione che da lì, ancora, si possa andare altrove. Un altrove che si chiama Gerusalemme, luogo simbolico di uno spazio negato.
La grande cupola sta lì, appena oltre quella galleria nella quale si tuffano i binari – solo loro, perché il treno che ci corre sopra è riservato agli Altri.
Gerusalemme non si vede. Però qui, almeno, si può ancora immaginare.
La ferrovia e Battir sono una cosa sola. Anche lei se ne sta lì, tranquilla, dai tempi dell’Impero Ottomano. Anno 1892, anno bisestile. Tempo di grandi esplorazioni, di imprese coloniali. Di rotaie e di binari, di ferro e di carbone. Quando la strada di ferro inizia a chiamarsi ferrovia.
Mappa di Stefano Rea
Una vecchia foto ingiallita dal tempo. Una casa di mattoni, una tettoia, per ripararsi dal sole. Stazione ferroviaria di Battir, ultima fermata prima di Gerusalemme. Passeggeri che salgono e scendono, il rifornimento d’acqua per la locomotiva che sbuffa. Ha fatto un lungo viaggio, è partita da Jaffa. Qui, d’altronde, almeno quella non manca. Adesso le donne dirette al mercato della Città vecchia per vendere frutta e verdura possono salire in carrozza. Niente più cesti sulla testa e infinita strada davanti per far arrivare a Gerusalemme le loro melanzane. Quelle lunghe, dolci, famose in tutta la Palestina. Ora c’è il treno, quell’oggetto strano che corre proprio vicino alla scuola, alle case dove trovano riposo i ferrovieri alla sera.
Scorre lenta la vita di Battir, che di Gerusalemme è considerato il giardino, la riserva verde di frutta e verdura. Fino al 1948, alla catastrofe. Fino ad Hassan il Vecchio, personaggio leggendario che inganna il destino e salva il villaggio.
La linea dell’armistizio, la Linea Verde, anche quella corre lungo i binari. Ma una volta finita la guerra si fa cicatrice, cesura che solca la terra. Le rotaie si fanno confine. Dall’altra parte, sul lato degli Altri, restano indietro 15 case, la scuola, e chissà quanti dunum di terra.
Poi gli accordi, firmati a Rodi tra giordani e israeliani, sulla testa dei palestinesi. Annesso c’è un documento speciale, dedicato a Battir. I contadini del villaggio possono oltrepassare la Linea di 3 chilometri per continuare a coltivare la terra. In cambio, però, il viaggio degli Altri deve essere sicuro.
Il loro orizzonte, oltre la galleria, si ferma.
“Vorrei che fosse molto chiaro: per noi quello del 1967 non è un confine”. Hassan il Giovane ha appena 30 anni, ma sul volto porta i segni di una stanchezza antica.
“Linea Verde è un termine che a Battir non ha alcun significato. Siamo riusciti a proteggere e tenere la nostra terra prima e dopo la Nakba, prima e dopo la Naksa. E gli unici confini che riconosciamo sono quelli disegnati dai nostri anziani insieme agli inglesi”.
“Hanno lavorato fino al 1925. Quando siamo stati minacciati dalla costruzione della barriera di separazione per la prima volta, da quel giorno erano passati 80 anni: nel 2005 ci hanno dato il primo ordine di evacuazione del villaggio per poter costruire il muro. Abbiamo ripreso il mano le carte inglesi, ripercorso i confini del villaggio metro per metro, riportato alla luce quel confine, l’unico che abbia senso. Non siamo i soli ad esserci trovati sulla Linea del ’67, tagliati in due. Ma siamo qui da prima di Saladino, e qui resteremo”.
La Stazione di Battir
Immagini tratte dal documentario Palestine Railways (J & J), Bittir train station. Credits by L. ALAraj
E’ il 2014 quando l’Unesco dichiara Battir patrimonio dell’umanità. Quel muro di separazione che il governo israeliano voleva costruire, da qui non può passare.
Troppo prezioso e antico il sistema di irrigazione, troppo creativa la resistenza del villaggio e della sua gente, che è fiera di ciò che chiama la sua “Intifada verde”.
Troppo importante preservare il sistema tribale di redistribuzione delle risorse. Tra queste widian, la proprietà privata non esiste. La terra si coltiva a rotazione, e nel grande bacino che raccoglie l’acqua delle fonti ci sono i nomi delle famiglie di Battir. Ad ognuna un po’, tutto per tutti, nessuno senza. Anche questa è l’eredita lasciata da Hassan il Vecchio.
“Di generazione in generazione siamo cresciuti nella consapevolezza che proteggere la ferrovia significasse difendere la nostra terra, avere la possibilità di tenerla saldamente fra le mani. Abbiamo sempre saputo, fin da bambini, che la violenza non avrebbe portato a niente. Il cortile della scuola si trova ad appena due passi dai binari. Certo che avremmo potuto lanciare pietre, rompere finestrini. Ma il giorno dopo sarebbero stati riparati. Noi, invece, avremmo perso la nostra terra”.
Si guarda ancora intorno, Hassan il Giovane.
“Ogni seme che piantiamo è parte della nostra resistenza. Non so come andrà a finire, e se devo essere onesto non m’importa. Uno Stato, due, dieci… l’unica cosa che conta per me è la libertà”.
Sorride, appena prima che il suono acuto di una sirena rompa la quiete del villaggio, si sovrapponga allo scorrere dell’acqua, qui sottofondo costante e dolce. L’allarme rivela che qualcuno o qualcosa ha violato la zona di sicurezza attorno ai binari. “Scappo a controllare, o passeremo dei guai. Ma tornate sabato, quando apriamo il mercato del paese. Promesso?”.