“Vi va se ci sediamo fuori con questa bella giornata?”. La caffetteria in cui ci incontriamo è affollata, come sempre: è sabato pomeriggio, e nel centro di Ramallah questo è ormai un punto di riferimento per i giovani. Qui, tra i tavolini del bar e le chiacchiere dei ragazzi che li affollano, la vita ha ancora un’apparenza di normalità, e l’occupazione puoi anche dimenticarla per un po’, fingere di non vedere che si estende tutto intorno. “Ma è una bolla, non è reale. Basta girare l’angolo per ritrovarla”, avverte lei.
Lema Nazeeh è una giovane attivista palestinese, molto nota anche a livello internazionale per il suo impegno nella resistenza popolare. E’ la sola donna a far parte del Comitato di Coordinamento dei villaggi che, dal 2005, lottano contro l’annessione territoriale che Israele porta avanti per costruire il Muro, e le misure oppressive messe in atto dal sistema dell’occupazione in Cisgiordania.
Classe 1987, una laurea in Diritto Penale Internazionale e diverse specializzazioni ottenute all’estero, Lema adora la sua città. Anche se, certo, “è folle, perché in un posto così piccolo abbiamo concentrato tutto quello che gli altri hanno potuto distribuire in interi paesi. A volte mi sembra che tutto lo Stato di Palestina, tutto ciò che potrebbe essere, sia costretto qui, tra queste strade”.
Figlia di una famiglia militante da sempre, Lema appartiene alla generazione della Seconda Intifada.
“Ricordo benissimo quegli anni duri, l’assedio della Muqata’a e dell’intera città, il coprifuoco, i tank per le strade”. Ricorda la bomba che fece saltare in aria la sua casa, le manifestazioni da cui rischiava di non tornare, ma soprattutto “la solidarietà tra le persone: il senso di condivisione, i pasti preparati insieme ai vicini, l’allegria con cui cercavamo di combattere il senso di oppressione con grandi feste di quartiere”. Ricorda un’adolescenza che avrebbe dovuto essere dedicata ad altro, se solo non fosse cresciuta in questa terra stretta.
Per la sua generazione il 1967 non è un ricordo. Eppure, resta un tassello fondamentale della memoria collettiva di cui anch’essa è parte.
“Non ho vissuto quella guerra, ma è sempre stata molto presente nei racconti della mia famiglia, come credo per tutti noi. Mio padre è cresciuto in un piccolo villaggio vicino Jenin, uno degli ultimi ad essere occupati durante la Guerra dei Sei Giorni. Era un ragazzo, e ricorda bene ogni particolare. Dopo il ’67 si unì al partito al-Fatah ed entrò nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Per tutta la vita ha fatto parte della Guardia Nazionale di Arafat. Con lui è stato esiliato in Tunisia, dove sono nata. Sono rientrata in Palestina solo in seguito. Forse anche per questo il ’67 è parte della mia storia”.
Per chi sotto occupazione è nato e cresciuto, la Naksa è solo una tappa di un percorso più lungo. Che inizia nel 1948, attraversa le maglie del presente e arriva fino a qui, ai tavoli di questa caffetteria.
“Considero occupata tutta la Palestina sin dal 1948. Per questo alla Guerra dei Sei Giorni non ho mai dato molta importanza. Fino a quando, 5 anni fa, ho partecipato ad una manifestazione per la ricorrenza della Naksa al check point di Qalandya. In quel momento ho capito che il ’67 aveva cambiato anche la mia vita: mi aveva costretta a combattere per un confine. Ed io non voglio lottare per questo”.
Giustizia, libertà, uguaglianza. Sono queste le sue parole d’ordine, le stesse che hanno fatto parte della resistenza palestinese fino ad Oslo quando, d’improvviso, la costruzione di uno Stato mai nato ne ha preso il posto, insieme a tutte le sue pragmatiche conseguenze. Sacrificando pezzi di storia, lasciando indietro chi, al tavolo negoziale, non aveva trovato spazio sin dal principio.
“Ci sono milioni di rifugiati palestinesi fuori dal paese oggi. Persone costrette a vivere in diaspora, nei campi profughi. Troverebbero forse una soluzione se anche facessimo rispettare il confine della Linea Verde? Non credo. E allora, se per questo devo lottare, ho bisogno di capire chi aiuterebbe. Forse gli israeliani, la comunità internazionale? Certo non noi palestinesi. E’ una realtà politica con cui dobbiamo confrontarci, ma rappresenterebbe solo un primo passo. Certo non l’ideale a cui sento di poter dedicare la mia vita”, spiega Lema.
Che ha ancora lo sguardo pulito, quello capace di immaginare un futuro di cui non sia paradigma il compromesso. In cui “i nostri diritti vengano rispettati, come quelli di chiunque altro. Non valgono certo di meno, non credete?”.
Forse anche per questo Lema ha scelto di abbracciare la resistenza popolare. “E’ stato quando per la prima volta ho partecipato ad una manifestazione nel villaggio di Bil’in. La gente suonava, ballava, sfidava l’occupazione con il sorriso. Era il 2010, e nella mia memoria le manifestazioni erano sempre state momenti duri, tesi, in cui sfidavamo i carrarmati con i nostri corpi vedendo persone morire ogni giorno. Durante la Seconda Intifada lo slogan ricorrente nelle piazze recitava che eravamo pronti a ‘morire per la Palestina’. Io invece ho capito che per la Palestina, per la nostra libertà, volevo vivere. E non vedere morire mai più nessuno”.
Non è stato così, e anche le manifestazioni nonviolente della resistenza popolare hanno pagato un prezzo alto in questi anni. Ma hanno continuato a riempire le strade dei villaggi, con l’ostinazione propria di chi ha la forza del diritto dalla sua parte.
Per questo Lema è convinta che la fine dell’occupazione potrà essere fatta di cose semplici, all’apparenza persino insignificanti. “Cosa sarà ‘normalità’ per me?”. Ci pensa un istante. Le persone sedute ai tavoli accanto stanno ascoltando la nostra conversazione ormai da un po’.
“…il mare. Poter vedere il mare. E’ uno spazio aperto no? Se puoi arrivarci, significa che puoi andare ovunque”.