Atto III

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Tulkarem. O della terra a cui tornare

 

La guerra, a volte, è un rumore improvviso.

Alle 7.45 del mattino, il 5 giugno del 1967, Faysal ha 8 anni ed è nei campi ad aiutare il padre. E’ una famiglia di contadini da generazioni, la sua. Sanno bene che in estate è meglio alzarsi presto, prima che il sole, impietoso, riversi il suo calore tra i sassi e gli ulivi.

Lo diceva il nonno, che alla terra bisogna andare con amore perché ti dia frutti. E Faysal, quella mattina, si alza presto e va alla terra.

Il verde dei campi e poi un rumore improvviso, come di mille fuochi. Faysal ricorda suo padre gridargli di stare attento, mentre si precipita verso casa. Bisogna correre, ripete. E’ una storia che ha già visto, sa di cosa parla. Lenzuola per terra, per raccogliere gli abiti e qualche coperta per la notte. Al raccolto no, penseremo dopo. Torneremo presto ma adesso… adesso bisogna scappare.

Ricorda il padre aiutare sua madre – Umm Faysal - salire sul dorso del mulo, i bambini più piccoli aggrappati al seno e alla schiena. E’ una famiglia numerosa, la sua. Ricorda un cammino che sembrava senza fine. La strada, lunga, verso est. E poi le caverne tra le colline, finalmente, in cui trovare riparo.

“L’unica preoccupazione di mia madre era per noi figli”. Faysal strofina un pomodoro contro la manica della giacca, per pulire via la terra.

Verde, qui, è tutto ciò che ostinatamente cresce in faccia al Muro, i tendoni bianchi delle serre a vegliare su un raccolto che è frutto di sudore e resistenza.

“Dopo tre giorni nella caverna si rese conto che il cibo che avevamo portato con noi non era abbastanza”. Il pomodoro ancora tra le mani, quelle stanche di chi torna alla terra ogni giorno da quella mattina di 50 anni prima. “Non ci fu modo di fermarla: decise di tornare al villaggio per recuperare il raccolto e nutrirci”.

Si muove piano, Umm Faysal. Attenta a non farsi scoprire. Deve solo raggiungere la dispensa, sul retro della casa grande. Poi, all’improvviso, l’esplosione. Un rumore intenso, e un fuoco che le prende le gambe. Raccoglie il cibo in un lenzuolo, se lo lega alla schiena e si rimette in cammino verso le caverne. Il sangue, pensa, smetterà di scorrere.

“Gli israeliani lanciarono 11 bombe contro il nostro villaggio, quel giorno. Alcune schegge penetrarono le gambe di mia madre. Sanguinava, ma continuò a camminare. Solo quando fu certa di averci raggiunti, di aver portato il cibo, chiuse gli occhi e si lascò morire”.

E’ un pianto fermo quello che pure si muove nello sguardo di Faysal. Ad asciugarlo sempre la stessa manica.

La torretta militare si staglia, alta, tra il bianco delle serre e le piante di pomodoro. Il Muro, qui, segna il confine della sua terra, e insieme quello della città che ne è avvolta.

La strada per arrivare a Tulkarem, ai piedi delle montagne, è lunga e corre verso nord. Qui la Linea Verde si confonde con il paesaggio ormai da tempo. Per intravederla occorre scavalcare con lo sguardo quel grande Terminal trafficato laggiù, in fondo alla valle. Quello da cui ogni giorno centinaia di persone passano per andare a lavorare dal lato degli Altri.

C’è stato un tempo in cui Tulkarem fu stazione di posta, punto di transito per le merci che da questa terra fertile partivano alla volta dei villaggi circostanti. Poi, un giorno, è diventato snodo di passaggio per vite in attesa: quelle che ogni mattina si svegliano precedendo il giorno, per affrontare il lungo cammino attraverso il Terminal.

Qui si decide chi la sera porterà a casa il pane, e chi invece dovrà trovare modo di riempire il tempo, in attesa di un’altra alba.

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La guerra, a volte, è una domanda che fa male.

Kullu tamam ya Faysal? Come stai?”

Faysal si chiede come si possa stare, dopo 50 anni di occupazione.

“C’è stato un tempo in cui insieme alla terra ho coltivato speranza. Non so quando le identità hanno prevalso sull’umanità. Ma è accaduto”.

Ricorda le zucchine ripiene di riso e carne che cucinava sua madre. Jihan le prepara allo stesso modo. A volte, gli sembra che abbiano persino lo stesso sapore. E’ giovane, e viene dal nord. E’ così bella da togliere il fiato. E ama la terra, se possibile persino più di lui. Nel campo profughi in cui è cresciuta ha imparato ostinazione, rabbia e dignità. Quando l’ha conosciuta, stava organizzando la manifestazione del venerdì seguente.

E’ il 1987. Tra amiche si sono divise i compiti: ognuna acquisterà un pezzo di stoffa. Una il rosso, l’altra il bianco e il nero, a lei è toccato il verde. E poi nei salotti,  tutta la notte a lavoro per cucire la bandiera vietata, simbolo di Patria, di libertà. Ha sempre rischiato grosso, Jihan. Ma Faysal ancora non sa che continuerà a sfidare a testa alta l’oppressione ogni giorno della sua vita. E del loro matrimonio.

Seduta accanto alla finestra della sala da pranzo, il mento poggiato su una mano, Jihan guarda fuori. Tra le valli e gli alberi, stride il grigio del Muro. E’ tanto vicino che sembra di poterlo toccare allungando la mano.

“Certo che ricordo il giorno in cui è iniziata la costruzione. Non fu con il cemento, e noi non ci accorgemmo di nulla a lungo. Iniziarono a sollevare la terra. Poi arrivò il filo spinato. Era il 2002, e sentivamo le notizie al telegiornale. Ma nessuno di noi credeva davvero che Israele si sarebbe rinchiuso. Capimmo troppo tardi che i rinchiusi saremmo stati noi”.

Del giorno in cui arrivò al campo di Balata, Jihan non ricorda quasi nulla. Tre anni non bastano a conservare memoria, per quella ci sono le parole dei grandi. Ricorda sua madre e sue padre parlare di Umm Khaled, il loro villaggio. ‘Torneremo presto, resteremo qui al campo solo qualche giorno’, dicono. Ma poi i giorni sono passati, e loro sono rimasti lì. Finché una mattina le tende sono diventate case, e le case palazzi.

Le domande, poi, sono cresciute insieme a lei. E le risposte sono diventate ferite incise nella pelle.

“Non mi sono mai chiesta come resistere. La cosa più importante per me è stata farlo”.

Faysal e Jihan tornano alla terra, ogni giorno. La loro piccola azienda agricola è una sfida gridata forte contro l’occupazione. Correrebbe fino all’orizzonte, se il Muro non decidesse dove questo si deve fermare. L’ultima pianta di pomodoro gli si arrampica contro.

“E’ terrorismo piantare questi alberi? Allora siamo terroristi. Queste piante rappresentano la nostra identità, la nostra cultura. Il Muro alle nostre spalle ne rappresenta un’altra. Questa non è un’occupazione, è un tentativo di sradicarci. Ma noi resteremo qui, insieme ai nostri alberi”.

Si stringono la mano come hanno fatto per tutta una vita. Faysal e Jihan sono contadini da generazioni. E torneranno alla terra, fin quando ci sarà terra a cui tornare.  

Dalla cucina arriva un profumo intenso, di spezie e cose buone. “A tavola adesso. Venite a sentire il sapore di casa nostra…”

 

Mappa di Stefano Rea