La normalizzazione dell’occupazione
“Quello della normalizzazione è un concetto delicato. Ma a volte, guardando l’operato di molte realtà come le organizzazioni non governative o le organizzazioni sovranazionali, rispetto all’occupazione della Cisgiordania, il dubbio viene. Molte di queste realtà reagirebbero, contestando che non è mai avvenuto un riconoscimento dell’occupazione del 1967 da parte loro, e che tentano di operare nel rispetto del diritto internazionale e con gli strumenti che hanno a disposizione. Ed è vero. Ma quando vai a vedere come operano, come ho scritto nel mio libro, nella pratica e nei dettagli, i modi in cui si relazionano al contesto di occupazione e con cui interagiscono con essa, emergono delle forme di normalizzazione”.
Nicola Perugini, antropologo, docente di relazioni internazionali presso l’Università di Edimburgo, è autore assieme a Neve Gordon del libro Il diritto umano di dominare, ha dedicato un lungo studio al tema dei diritti umani, al loro mutare, alla necessità di tenerli ancorati ai fatti e ai tempi. E l’occupazione israeliana della Palestina è uno dei casi studio. Al punto che viene da pensare come, nel tempo, l’occupazione - per la comunità internazionale – si sia normalizzata.
“Certe forme di dominazione legate all’apparato di controllo israeliano vengono se non accettate, normalizzate. Non significa salvare e/o accettare la situazione, anzi, la normalizzazione stessa va spiegata: entrando negli stessi campi e linguaggi delle forze occupanti, come molte organizzazioni non governative e sovranazionali fanno, a volte, ci sono rischi che possono arrivare a rendere normali certe pratiche, certi dibattiti e certe discussioni. In questo senso, l’area C (l’area della Cisgiordania che anche dopo gli Accordi di Oslo è rimasta sotto totale controllo israeliano), con le sue colonie con i suoi checkpoint e le misure di sicurezza varie, offre un esempio di quello di cui stiamo parlando. E i grandi donors e le ong internazionali che si occupano di pianificazione allo sviluppo, chiedono spesso il permesso all’occupante per agire.
Nuovi progetti e interventi che dovrebbero aiutare il popolo palestinese a non essere espulso da questo spazio amministrativo – territoriale occupato che la farsa di pace di Oslo ha lasciato completamente in mano a Israele, vengono spesso messi in atto coordinandosi con l’amministrazione occupante, utilizzandone i meccanismi legali discriminatori, cercando di non disturbarla per evitare crisi politiche internazionali. Ecco che muovendosi sulle mappe dell’occupante, ne riconoscono l’autorità e ne certificano il potere. Come accade, per molte questioni, anche all’occupato”.
Al punto di doversi domandare, senza semplificazioni, quando anche per l’occupato si stia assistendo a un lento, ma inesorabile, processo di normalizzazione della propria condizione, più o meno consapevole.
“La normalizzazione del potere e delle forme di dominazione che ne conseguono è stato sempre un obiettivo del colonialismo. E passa dal colonizzato. Rendere ‘normale’ la situazione dell’occupazione è l’obiettivo non solo del potere coloniale, ma di ogni forma di potere: quello di essere accettato. Il processo di pace e gli Accordi di Oslo sono stati un momento molto indicativo in questo senso. Il dominato è stato reso docile e il risultato di quel processo, oggi, è disarmante. Se per le ong o per le Nazioni Unite la normalizzazione parla di impotenza e/o complicità, a seconda delle responsabilità, per i palestinesi la normalizzazione è ancora peggio, perché porta a un risultato grave: la distruzione di un tessuto storico di resistenza, di rifiuto dell’occupazione, con tutti gli effetti di lacerazione sociale che questo comporta.
È una forma di anestesia, con degli effetti devastanti. Un impedimento della politica, un impedimento della solidarietà. Quando si vivono certe esperienze e forme di potere a cui si è assoggettati come normali diventa difficile riconoscerle”.
Un’occupazione lunga cinquanta anni, per forza di cose, ha effetti radicati nella società. Sia quella internazionale sia quella dell’occupato, ma anche in quella dell’occupante. Quanto è diventata larga la faglia civile che si allarga dalle grandi manifestazioni di piazza in Israele dopo il massacro di Sabra e Chatila, negli anni Ottanta, rispetto alle operazioni militari di oggi, che godono di un consenso popolare blindato? Quanto in questo processo ha influito l’investimento di lungo periodo nella grammatica della paura dell’altro, della sua inaffidabilità, portata avanti dalle classi dirigenti israeliane? Che hanno colto al volo l’opportunità, post 11 settembre 2001, di rovesciare il senso della resistenza in terrorismo.
“Non metto in dubbio che ci fossero delle manifestazioni di dissenso, più partecipate e critiche delle presenti, però mi chiedo se in questo passaggio non siano emerse proprio le contraddizioni interne di una generazione, quelle del blocco di opposizione interna israeliana. Può essere che, passo dopo passo, siano crollate le loro connessioni, siano emerse le problematiche rispetto alle loro concezioni di fondo dell’occupazione israeliana. E’ come se, per un movimento variegato e per la sua componente pacifista in generale, concentrarsi sul 1967 abbia lasciato irrisolta la questione chiave, quella del 1948. Per ragionare su come e se siamo arrivati a una neutralizzazione, non occorre forse ripensare alla natura di quella opposizione e alle sue contraddizioni? Magari va considerato che alcune delle concezioni pacifiste si sono scontrate con una realtà che ne ha mostrato i limiti? E che, rispetto al processo di Oslo, ha lasciato una percezione di inefficacia, una sensazione di inganno, almeno rispetto alle generazioni successive. Una verifica della realtà che ha fatto emergere tutta l’insufficienza del discorso pacifista. E da qui il riconoscersi di un numero sempre maggiore di israeliani nel discorso del boicottaggio è interessante, anche perché ha coinvolto circoli moderati. Oggi come elemento critico della società israeliana e della sua politica di militarizzazione e di occupazione coloniale, restano quelli che hanno superato una retorica che non ha retto l’urto delle condizioni strutturali dentro cui sono incarnate le pratiche israeliane di dominio dei palestinesi. Non poteva reggere l’urto di 70 anni di nakba senza fine, quella sinistra che vedeva il 1967 come fulcro del problema. Le istanze progressiste si sono ammalate, in Israele, di rimozione. Le due cose non potevano stare assieme o lo fanno senza poi reggere l’urto di un pensiero critico”.
Un processo che forse non finisce per riguardare solo l’occupazione israeliana che, sempre di più, rischia di diventare un modello, o peggio, lo è già diventato.
“Quella del modello, magari, è una categoria eccessiva, un discorso da fare con cautela, perché si rischia di puntare tutti gli occhi su Israele perdendo di vista cosa il modello ci dice di dinamiche politiche più globali. Israele è un laboratorio però, è evidente, lo sostiene lo stesso discorso pubblico israeliano. Dalla Seconda intifada in poi, ma anche prima, Israele si autorappresenta come avanguardia in settori quali l’interpretazione del diritto internazionale e la sua costante reinterpretazione come legittimazione giuridica di forme di violenza associate alla ‘guerra al terrore’. A questo si aggiunge il fatto che Israele si autorappresenta – ed è riconosciuto su scala internazionale da molti governi, occidentali e non - come un laboratorio tecnologico post 11 settembre, capace di produrre tecnologie rispetto al controllo che vengono testate nel laboratorio interno, sul popolo palestinese. E inoltre modello di produzione della conoscenza su temi quali la sorveglianza, il controllo, la contro insurrezione. Una produzione che, spesso, coinvolge gli ambienti accademici, quelli stessi ambienti che gli oppositori del boicottaggio accademico contro Israele definiscono ‘ambienti neutrali’. C’è una strategia chiara in questo senso, una narrazione retorica e ideologica, per la quale Israele - in ogni episodio di violenza dell’insicurezza globale - interviene politicamente dicendo: “Vi capiamo, ci siamo passati”. Forme di appropriazione di episodi di violenza che avvengono altrove, sconnessi, dalla specifica realtà israeliana, ma che si concretizza in consulenze, aiuti, solidarietà”.
La normalizzazione, per quanto incompiuta, dell’occupazione israeliana si è nutrita anche della crisi dei diritti umani in generale, della loro incapacità di attualizzarsi e di rispondere alle domande del contemporaneo. In un processo di cristallizzazione che ne ha segnato una crisi.
“Il discorso sui diritti umani si è trasformato da arma di rivendicazione di giustizia per chi vive in contesti di oppressione, discriminazione e dominazione, in ‘lingua franca’ globale. Le Pen utilizza le stesse categorie di Amnesty International; Putin, per legittimare le sue forme di omofobia, rivendica il diritto umano alla famiglia; i suprematisti bianchi rileggono certe forme di violenza contro i neri come difesa della comunità bianca dal genocidio. La lettura più semplice sarebbe quella consolatoria, per la quale gli storici destinatari di un discorso sui diritti umani hanno capito che far loro quelle categorie e ribaltarle avrebbe alla lunga pagato. Si potrebbe pensare che questa sia una vittoria. Ma in questo processo sono successe cose importanti che ci impongono un ripensamento. Quello dei diritti umani è un discorso sempre in divenire e bisogna capire cosa è andato storto. Di base l’appetibilità di un linguaggio di principi e valori condivisi per l’umanità è sempre stata forte, ma questo non cancella gli errori, anche se non è trovare un colpevole che risolve la questione. Perché comunque ci sono dei processi storici. Vanno denunciati gli errori del campo progressista che hanno portato agli scivolamenti a cui ho fatto accenno prima, ma c’è una grossa trasformazione storica in atto. La trasformazione di determinate forze progressiste, e il loro sgretolamento per certi versi, è avvenuto proprio mentre questo linguaggio diventava universale. Il campo reazionario internazionale si è appropriato del linguaggio dei diritti umani rendendolo irriconoscibile per chi in passato pensava che quel linguaggio fosse appannaggio solo del campo progressista. Questo ha avuto come effetto l’offuscamento dei termini fondamentali di discussione di alcune grandi questioni come la questione palestinese. Se in una questione come questa sia il colonizzato che il colonizzatore rivendicano le proprie istanze di giustizia utilizzando lo stesso discorso, quello dei diritti umani; se i coloni rappresentano la potenziale liberazione delle terre che hanno espropriato come pulizia etnica nei loro confronti e una violazione dei loro diritti umani; allora la questione palestinese, nel senso gramsciano del termine ‘quistione’ (come per la ‘quistione meridionale’) assume nuovi contorni, e chi si batte per la decolonizzazione come diritto umano deve fare i conti con le condizioni e i processi storici che hanno prodotto questo nuovo scenario in cui i diritti umani vengono utilizzati per normalizzare la colonizzazione. Senza pensare, ribadendo i diritti umani come slogan, ci si impantana”.
A questo punto di questo lungo processo storico sembra che la questione della sicurezza sia rimasta oggi l’unica questione. In tutte le sue forme e declinazioni, con tutte le letture volte a far propria la chiave di volta dell’apparato securitario, come fine e come giustificazione di un processo politico liberticida.
“La crisi dei diritti umani inizia prima, di sicuro già dagli anni Settanta, ma è oggettivo che l’11 settembre 2001 si è trasformato nel principio della grande messa al bando su scala transnazionale di qualsiasi discorso volto a ragionare su quali istanze siano legittime nell’ambito dell’idea di sicurezza che una società decide di darsi. La sicurezza è la questione. La logica della sicurezza normalizza il controllo facendo proprio il discorso dei diritti. In nome di un principio superiore e molto astratto di protezione dei diritti sono state paralizzate molte istanze di conflittualità e di giustizia”.