di Cecilia Dalla Negra e Christian Elia
foto e web di Gianluca Cecere
Devi concentrarti, devi guardare. Bene, a lungo. Scrutare. E’ l’unico modo, perché non c’è un cartello, un segno, un’indicazione. Eppure sono là, dove erano prima e dove sono ancora, aspettando di essere di nuovo.
Pietre.
A volte da sole, a volte abbracciate in muretti a secco. A volte evidenti, a volte oramai quasi sommerse dalla vegetazione. In alcuni casi, con ostinazione, hanno mantenuto una forma che racconta una storia: un forno, un pozzo.
Immobili. Con un’altera ambizione di eternità.
Il cartello dice Canada Park, ma non dice tutto il resto. Ora anche il cartello cambia, come messo di fronte a un dubbio, e diventa Ayalon Park. Ma continua a non dire, vecchio testardo, a nascondere una storia della quale non vuole parlare.
Una storia di sangue e memoria, terra e storia. Quella di Yalo, Bayt Nuba e Imwas. Tre villaggi che abitavano la valle di Latron, come tre fratelli, che si erano guardati crescere a vicenda per cento anni, ma che un giorno sono scomparsi.
Cancellati. Con la volontà di fare terra bruciata, come non fossero mai esistiti.
Da nessuna parte c’è un cenno a loro. In nessuna indicazione si fa un riferimento ai tre villaggi, ai tre fratelli. Si parla del periodo bizantino, con quel riguardo che si porta a una storia così lontana da non essere più ingombrante. Ma nel mezzo, della storia che da una mattina di giugno del 1967 arriva fino all’attuale parco, tutto viene rimosso.
Il parco è nel cuore della terra stretta. Palestina, Israele. Lungo quella Linea Verde che per la comunità internazionale avrebbe dovuto rappresentare il futuro confine di due Stati, ma che oggi è il simbolo di un’occupazione militare che dura dal 1967. Quando una guerra molto breve ha sancito l’inizio della più longeva operazione di occupazione di territori della storia.
La maledizione dei tre villaggi, dei tre fratelli, era quella di essere a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv. Il vecchio e il nuovo, l’asse strategico che doveva essere saldato tra l’Israele della Bibbia e quello della nuova nascita, della nuova vita. Tra l’Impero Romano e l’Olocausto. Un peso enorme, come di mille montagne, che gravava sulla vita dei palestinesi che abitavano da generazioni i tre villaggi e che si è materializzata in una frana sanguinosa, in una notte di primavera del 1967.
“Vedete i fichi d’india, laggiù, tra gli sterpi?”, domanda, il braccio teso ad indicare, fuori dal finestrino dell’auto che solleva polvere. Stare dietro a Michel Warschawski, per tutti semplicemente ‘Mikado’, è impegnativo. Si muove leggero, portando i suoi anni senza affanni, tra alberi e sentieri. Guarda, scruta. Perché è uno di quegli israeliani che non ha voluto voltarsi dall’altra parte. Che non ha voluto costruire il suo futuro sul passato degli altri.
“Questo è l’unico luogo dell’area da cui la popolazione fu espulsa e i villaggi distrutti nel 1967. In quel periodo non ci furono operazioni di pulizia etnica in Cisgiordania, salvo qui a Latron, nei tre villaggi della valle; nel Golan e a Jerico, perché la guerra finì troppo in fretta. Ci fu l’intervento internazionale e Israele non poté realizzare il sogno del 1948. Vedete i fichi d’india? Quando ne trovate significa sempre che qui c’era un villaggio palestinese. Sempre”.
Anche ricordare, ostinatamente, a volte è un atto di resistenza.
Gesticola, indica, si sofferma. “Vedete, qui ci sono dei pini, degli abeti. Molti arrivando qui dall’Europa tentarono di ricreare nella terra promessa uno scenario al quale erano più abituati. Una forma di nostalgia della vecchia vita. Ma questa è terra di fichi d’india e ulivi… li rigetta. E le piante che sono sempre state qui, resistono”.
Il parco sembra deserto. Un paio di persone corrono nei sentieri, godendo dell’aria buona; due turiste si guardano attorno, una squadra di operai della manutenzione è a lavoro. Mikado ne ferma uno, un ragazzone di quasi due metri, con la tuta di ordinanza. “Lo sai che qui c’erano tre villaggi palestinesi?”, chiede d’impulso, come un folletto del bosco che si materializza per porre il viandante di fronte a un dilemma. Il ragazzo scuote la testa. “No, non so…”, replica. Non è una risposta aggressiva, è una risposta smarrita. Rispetto a una domanda che nessuno gli ha insegnato a porsi.
“La prima azione compiuta dagli israeliani quando hanno conquistato quest’area è stata nazionalizzarla, come hanno fatto anche altrove, per costruire un parco come in questo caso, o aree militari e insediamenti. Nelle operazioni di pulizia etnica compiute dal ’48 Israele si è sempre mosso su due livelli: prima, impedire ai palestinesi di restare, poi nazionalizzare l’area. Infine vietare per sempre un possibile ritorno degli abitanti. Semplicemente rimuovendo, cancellando quel che c’era”.
In questo caso il denaro per il parco venne raccolto da Bernard Blooomfield, l’allora presidente della sezione canadese - da cui il nome di Canada Park - del Jewish National Fund [http://www.jnf.org]. Una somma pari – al valore odierno – a 80 milioni di dollari statunitensi. Un’opera intensa di forestazione, di copertura di invasi, di chirurgia estetica per cancellare le cicatrici della storia. Aperto nel 1975, terminato nel 1984. Un colpo di spugna, una rimozione totale, profonda. Che ha lasciato solo piccole tracce delle vite che qui sono passate.
Tra quelle tracce, con la fermezza della ragione degli altri, si muove Michel.
Che aiuta a scrutare, a individuare quella testimonianza che resiste. Come un vecchio fico d’india, che le famiglie palestinesi usavano per delimitare le proprietà, separare l’una dall’altra. Svelato il rimosso, lentamente, la geografia del luogo si svela come una mappa fantasma. Ecco un pozzo, ecco un vecchio forno.
“Nel 1967 studiavo a Gerusalemme in una scuola talmudica. Fin dal mese di maggio avevano iniziato a spirare venti di guerra, ma ero troppo giovane per entrare nell’esercito. Venni a vivere nel kibbutz di Sha’alvim – ortodosso e molto religioso - come volontario. Il rabbino qui era un buon amico di mio padre, rabbino a sua volta a Strasburgo, la mia città natale”.
A separare il kibbutz dalla valle di Latron – e insieme due mondi distinti e paralleli - solo una collina.
“Alla fine della guerra ero qui, su questa collina. Pattugliavo l’area insieme al rabbino. All’improvviso davanti ai miei occhi è comparsa la fotografia di un esilio. Migliaia di uomini, donne, asini, si muovevano in una lunga fila, verso est. Ricordo che chiesi al rabbino cosa stessero facendo tutte quelle persone, e perché. Mi rispose soltanto che stavano andando a Ramallah. Mi fece impressione, ma lo dimenticai presto. Allora non potevo saperlo, ma erano gli abitanti dei tre villaggi di Latron. Un anno più tardi all’università in cui studiavo si svolse una manifestazione di un gruppo anti-sionista molto radicale. Gli attivisti distribuivano volantini. Ne raccolsi uno da terra: denunciava l’operazione di evacuazione forzata dei palestinesi dai villaggi di Latron. ‘Io l’ho visto! E’ tutto vero!’, gridai. Mi tornò alla mente quell’immagine, come una fotografia”.
Di quei giorni, Mikado ricorda soprattutto l’atmosfera, il senso di ebrezza collettivo. Il passaggio dalla paura che attanagliava la gente, e che aveva preceduto i giorni della guerra, alla sensazione di onnipotenza con cui ne uscì, appena sei giorni dopo.
“Si era come presi da una totale isteria collettiva: come se tutti avessero improvvisamente scoperto Dio. Un momento che definirei ‘messianico’, in cui Israele veniva spinto in una dimensione completamente nuova. Solo una piccolissima minoranza di persone, come me, si opponeva a quella che stava diventando chiaramente un’occupazione. Non ci trattavano neanche come oppositori: per loro, per la maggioranza, eravamo semplicemente folli. L’intera società rifiutava la verità. E’ allora che sono diventato un attivista. Continuo ad esserlo ancora oggi”.
Un ragazzino insegue un pallone, in una strada polverosa, tra caseggiati bassi e diseguali. Alle porte di Ramallah, il villaggio di Beitounia custodisce il ricordo. Invecchia, come una storia antica. Ma cinquant’anni non bastano per cancellare una memoria collettiva.
E la storia, a volte, si ferma davanti a un albero. Najeh tornò con suo fratello, di notte, per prendere quello che era suo, che era stato sempre suo. Che aveva visto i suoi nonni lavorare, i suoi genitori sposarsi, i suoi fratelli e le sue sorelle innamorarsi. Non trovò più nulla, già il fuoco e il ferro si erano abbattuti sulla sua vita e su quella di tutti gli altri. Najeh oggi è un uomo di mezza età, legato a una storia che non ha potuto consegnare al passato.
“Accadde di giugno, durante il periodo della raccolta. La gente era nei campi. Non riesco a dimenticare l’immagine di mio padre, in piedi, che trascina sulla strada l’asino su cui siamo seduti io e mia sorella. Fuggimmo, passando la notte nel cortile della moschea di un villaggio vicino. Eravamo centinaia. Solo negli anni mi sono reso conto di come, nella tragedia, ci fosse una forma di inconsapevolezza. Tutti pensavano che, passata la bufera, saremmo tornati. Non si guardava a ciò che stava accadendo come a un destino, ma come ad un evento tragico e passeggero. In fondo eravamo vivi, e quel giorno era tutto ciò che contava”.
Di quei giorni, l’atmosfera che ricorda Najeh è quella di chi si trovava dal lato opposto della collina. Di chi il kibbutz lo aveva di fronte.
“Quella mattina la maggior parte delle persone si preoccupava di cose materiali: la casa, gli animali lasciati indietro, il raccolto. Ricordo che mio padre voleva tornare indietro per controllarlo e per prendere il cibo. Era angosciato dalla nostra fame, dal lavoro di tutti quei mesi che rischiava di andare perduto. Alla fine, anche se molti gli dicevano di non farlo, decise di tornare. Sappiamo che ci è riuscito. Ma a dircelo sono stati i due asini, che tornarono indietro carichi di provviste, ma senza mio padre. Tornarono da soli, perché era stato ucciso”.
La guerra è anche un albero di melograno. Che oggi cresce grande e rigoglioso, davanti alla casa di Najeh e di sua moglie. Grande e grosso come lui, che non trattiene le lacrime quando pensa a suo padre. Tutto ciò che resta della sua infanzia, dei suoi ricordi e della sua terra, sono quelle radici.
“Io e mio fratello cercammo di ritrovarlo ma non fu possibile. Tornammo anche al villaggio, di notte, non so bene neanche perché. Rischiammo la vita, ovunque c’erano militari. Ma riuscimmo ad arrivare alla vecchia casa, distrutta come tutte le altre. Ancora oggi non so perché, ma mi venne naturale: prendemmo una pianta, piccola, che avevamo piantato da poco. La portammo con noi. Può sembrare assurdo, rischiare la vita per una pianta. Ma oggi la guardo, ogni mattina e ogni sera, qui nel mio giardino. Mi ricorda da dove vengo, chi sono. Mi ricorda mio padre e tutti gli altri. Lo ricorda ai miei figli e lo ricorderà ai figli dei miei figli. Ogni mattina e ogni sera. Perché non vada perduta almeno la memoria alla quale resto legato come queste radici, che si sono portate dietro la terra dove siamo nati e cresciuti”.
La guerra è un uomo grande e grosso che piange. La guerra è memoria che divide.
Latron è stato uno degli unici casi di pulizia etnica del 1967, che invece hanno caratterizzato il conflitto e la conquista israeliana del 1948. Ma è impossibile raccontare la ricaduta senza la catastrofe. La Naksa del ‘67 senza la Nakba del ’48.
Ed è qui, nel cuore di questa valle, che le due tragedie si incontrano nella memoria dell’esilio. E si intrecciano, in un progetto del governo israeliano lasciato in sospeso nel ‘48, che andava completato. Due fasi dello stesso piano per gli israeliani, dello stesso trauma per i palestinesi.
Di tutto questo, Latron è simbolo, memoria che resiste al tempo.
Da qui inizia il nostro viaggio. Un viaggio lungo la Linea Verde, emblema di una storia che ancora non può essere chiusa, non finché restano conti da fare. Un cammino per ripercorrere una linea solo immaginata, appena tratteggiata, verde come l’inchiostro che al tavolo delle trattive del ’49 venne usato per disegnarla su una mappa poi dimenticata.
Da qui, dalle tombe dei tre fratelli, dai resti di tre villaggi, partiamo.